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Dal Nuovo Mondo

il blog di stefano Mar 02, 2023

Lo preciso a beneficio di chi, frettolosamente, non si accorgesse che il raccontino che segue è solo uno di quelli che un tale Giuseppe Giusti avrebbe chiamato scherzucci di dozzina.

La realtà in cui viviamo è – sia ringraziato il Cielo – il migliore dei mondi possibili, come avrebbe detto più di tre secoli fa un tale Gottfried Wilhelm von Leibniz.

Insomma, si tratta solo di una pinzillacchera di un maldestro scrittore dilettante che chiede preventivamente perdono.

 

Ne avevano parlato tutti i giornali, almeno quelli diffusi nel raggio di una cinquantina di chilometri: i medici del policlinico e il personale tutto, con particolare riguardo al presidente (che aveva rilasciato un’intervista in cui ammetteva modestamente che il merito era tutto suo), avevano fatto il miracolo. Anzi, no: avevano applicato la vera scienza. Insomma, il signor P.P. di anni 77 si era risvegliato da uno stato di coma durato dieci anni. La notizia veniva divulgata solo ora, quando della riuscita si era ragionevolmente sicuri, visto che P.P. se n’era tornato a casa sulle sue gambe.

Così, Palmiro (P.P. era lui), ritrovata casa sua, si era avvolto nella vecchia bandiera dell’URSS e, a passi petrarchescamente tardi e lenti, aveva trascinato l’altrettanto petrarchesco antico fianco fino all’entrata della cellula Yuri Gagarin.

Con sua sorpresa vide, appesa a una finestra, la bandiera degli Stati Uniti al cui fianco pendeva un’altra bandiera che pareva quella gialloblù dei tifosi del Modena.

“Non avranno traslocato?” Pensò. Così, prima di premere il campanello, s’infilò gli occhiali. “Centro Pace e Salute” era ciò che stava scritto.

Suonò lo stesso. Ad aprirgli fu un tale che lo squadrò per un attimo. Poi, dopo essersi guardato furtivamente intorno, “Palmiro!” esclamò.

Era Nikita. Magari un po’ invecchiato, ma era lui, anche se una maschera di carta su naso e bocca lo rendeva strano.

“La...” sussurrò.

Palmiro aggrottò le ciglia. Non capiva. “La cosa?” domandò.

“La... la bandiera.”

“La nostra bandiera: quella sovietica!”  E cominciò ad intonare, ovviamente senza parole, l’inno della vecchia URSS.

“No... Non... Insomma, è meglio che tu...”

“Che io?”

“Dammela qua.”

Sempre senza capire, Palmiro si tolse la bandiera rossa con la vecchia falce e il vecchio martello, e la porse al suo vecchio amico.

“Mettiti questa!” disse Nikita cavandosi di tasca un bavaglio uguale al suo.

“Nikita... Nikita, spiegami...”

“Zitto! Adesso sono Sheva.”

“Sheva? Ma che cosa..?”

“Sheva è Shevcenko. Shevcenko: il vecchio calciatore, quello del Milan. Non me n’erano venuti in mente altri di ucraini. Io neanche sapevo dove sta l’Ucraina. Lui è ucraino, mi hanno detto. Così...”

“Ucraino? Ma chi se ne...!”

“Zitto! Mettiti la mascherina e vieni in bagno!”

I due si chiusero al gabinetto. L’odore era lo stesso di un tempo, ma il resto... Avevano attraversato la saletta che ancora puzzava nostalgicamente di fumo freddo, quella saletta in cui un tempo si giocava a briscola maledicendo a gara gli americani, colpevoli di tutti i mali del mondo. Quella in cui, davanti al televisore in bianco e nero, si tifava URSS quando la nazionale giocava contro l’Italia. Lì il vecchio grammofono, quello su cui almeno venti volte al giorno risuonava il disco di Volga Volga e Kalinka (lato B), quello regalato dal coro di Vladivostok con dedica in mai tradotto cirillico sulla busta, diventato musicalmente misterioso, gracchiante e sfrigolante come si era ridotto a furia di repliche, se ne stava in silenzio. Aveva lasciato il posto a un computer che diffondeva le canzoni del Far West. Nel corridoio non c’erano più le foto con i ritratti di Lenin (Stalin era sulla faccia posteriore del quadro che veniva girato solo per i fedelissimi), di Gagarin, di Breznev, del gruppo che nel ’63 era stato in gita a Mosca ed appariva trionfante con lo sfondo del Cremlino dove, per tutti e due i giorni della visita, aveva ascoltato rispettosamente in piedi discorsi in russo, incomprensibili ma emozionanti, e da raccontare a chi era restato a casa. C’era, invece, una foto di scena con un tale che rideva davanti a un pianoforte. La cosa curiosa era una striscetta bianca appiccicata all’altezza delle pudende. Poi c’era il ritratto di George Washington, quello di Kennedy, quello di Joe Di Maggio con guantone e pallina da baseball in mano (non si era trovato altro), e quello di un tizio che Palmiro non aveva mai visto, un tizio dall’espressione stranita, ritratto davanti alla bandiera a stelle e strisce.

“Dobbiamo parlare sottovoce. I microfoni...”

Palmiro capiva sempre meno.

“Per favore, non fare domande. Adesso i buoni sono gli americani, e i russi i cattivi. No! Non fare domande! Nei tuoi dieci anni di vacanza il mondo è cambiato.”

E Palmiro capiva ancora meno. Era il “contrordine, compagni!” di Guareschi?

“Dammi cinque Euro. Dobbiamo comprare le bombe. Facciamo una colletta.” Disse quello che fu Nikita guardando una minuscola  griglia sul muro che poteva essere roba da 007.

Con gli occhi sbarrati Palmiro si tirò fuori di tasca le cinque monete.

“Dobbiamo sparare ai russi. Adesso devo scappare. Devo andare a prendere Ivan.”

“Sarà... Sarà già grande.”

“Sì, abbastanza da... Te l’ho detto: il mondo non è più quello di una volta. Adesso siamo liberi.”

“Ma che cosa c’entra con Ivan? Liberi? Non sarà mica stato in galera?”

“Ivan sta finendo il corso di transgender, e vado a prenderlo per portarlo dall’estetista.”

“Ma... Ma che cosa dici! L’estetista? Che cavolo è ‘sto tram... Tram che?”

“Ma quale tram? Transgender. Insomma... Insomma, Ivan cambia sesso.”

No: se prima Palmiro non capiva, adesso si stava convincendo che Nikita, o Sheva, o come diavolo si chiamava, aveva perso la testa.

“Il sesso che ti è capitato addosso non c’è più. Abolito! Te lo insegnano anche a scuola! Mica l’hai scelto tu il sesso! Te l’ho detto: adesso siamo liberi, e puoi essere tu a decidere.”

Palmiro si lasciò cadere sul water.

“Ivan sta per finire il corso, e poi diventerà una... una signorina.”

“Una...?”

“Ma sì: ha passato il primo esame e gli fanno già le punture. Hanno cominciato a crescerli le tette, e siamo a buon punto. Poi, quando sarà promosso al secondo esame, gli taglieranno il pistolino.”

“Il...?”

“Il pistolino. Ma non andrà mica perduto. Non lo metteranno neanche in frigo. Sua sorella Ludmilla aspetta solo il trapianto. Resta tutto in famiglia. Saranno sempre fratello e sorella. Solo, al rovescio.”

Usciti dal gabinetto, senza salutarsi, i due si separarono. Palmiro tornò indietro un attimo. “La bandiera...” disse. 

Tornando a casa, Palmiro andò quasi a sbattere contro un tale, una specie di armadio, che zampettava su tacchi a spillo, con pochi capelli lunghi fino alle spalle, con una barbetta rossa, gli occhi bistrati, una bocca vermiglia di rossetto, un paio di mammelle che un tempo, quando non c’era libertà, sarebbero state fuori luogo, e una voce da basso profondo che esclamò: “Stai attento a dove vai!”

 

Intanto, lontano da lì, a Roma, nella sede del Partito, si discuteva della nuova pandemia in arrivo.

A parlare era lo scienziato che, anni prima, si era laureato in Unione Sovietica senza nemmeno l’incomodo di spostarsi da casa sua. Il Partito aveva provveduto a qualunque necessità burocratica. Lo chiamavano tutti Doctorovschi. Adesso, però, quella laurea targata URSS, reale o fasulla che fosse, creava un certo imbarazzo.

“Non ci sono dubbi – tuonò: - abbiamo assoluto bisogno di una nuova pandemia. Fallita quella del vaiolo delle scimmie perché ci aveva creduto solo qualche medico, dobbiamo metterne in pista un’altra. Al momento, in mancanza d’altro, disponiamo solo di quella delle galline: l’aviaria. E con quella dovremo fare.”

 “Con quella dovremo fare.” Confermò, innescando consensi da cui uscì compiaciuta, la dirigente che di medicina se ne intendeva perché per anni era andata di casa in casa a fare le iniezioni.

“Abbiamo il vaccino?” Domandò l’addetto ai neuroni popolari.

“Ma che c’entra? Si usa quello che c’è. Basta cambiargli l’etichetta.”

“Che cosa ce ne facciamo di una pandemia? Non siamo più al governo!”

Doctorovschi sorrise, e tutti i presenti lo imitarono come si fa quando arriva un cenno dalla buca del suggeritore.

“Qual è il progetto?” Riprese il neuro-esperto.

“Per prima cosa, abbatteremo tutti i polli.”

“Ma... Ma, se abbatteremo tutti i polli, chi voterà per noi?”

“Abbiamo a disposizione giornali, TV, radio e, soprattutto, Internet. Abbiamo fatto tutti, in squadra senza confini ideologici, un lavoro eccellente, e ormai i cervelli sono cucinati a puntino. Siamo una grande famiglia con un grande obiettivo. E poi, pensate a quanti vantaggi otterremo. Potremo obbligare la gente a iniettarsi i vaccini che stanno scadendo e, con loro, gli altri che abbiamo comprato e che non hanno riscosso entusiasmo. Potremo sponsorizzare le tonnellate di mascherine che ammuffiscono nei magazzini. Obbligheremo tutti a portarne almeno due. Due anche mentre fanno la doccia. Due anche quando dormono. Due anche quando sono soli in casa. Faremo solo un'eccezione quando ci si laveranno i denti, e di questo ci saranno tutti grati. Potremo rinchiudere di nuovo la gente agli arresti domiciliari facendola ammalare. Potremo mandare in rovina chissà quante piccole imprese. Potremo addirittura riesumare i banchi di scuola con le rotelle, quelli che anche i luna park hanno rifiutato. Potremo portare a termine l'impresa di rendere analfabeti i giovani. E, dopo aver radiato medici, infermieri, biologi e farmacisti che non hanno capito come gira il mondo, potremo ripresentare i nostri scienziati che reciteranno in coro il copione ormai quasi pronto. E abbiamo già pronta anche la canzoncina che canteranno. E i droni? Ne compreremo a migliaia per controllare qualunque cosa si muova. Infileremo i chip sotto la pelle. Sapremo tutto di tutti. I soldi non mancano: basta mettere le mani in tasca ai sudditi. Sarà un trionfo!”

A quel punto, timidamente, prese la parola un vecchio iscritto del Partito: un vegano. Nel suo passato, una storia triste che ancora ricompariva nei brutti sogni quando sospettava di aver mangiato inavvertitamente tracce di uovo: anni prima, per metterne alla prova la fedeltà e l’obbedienza, era stato obbligato, sotto gli occhi di un manipolo d'inflessibili controllori, a curare la griglia delle salsicce alla Festa dell’Unità. “Ma non si potrebbe fare in modo che i polli sopravvivono?” Azzardò, evitando l’ormai sospetto congiuntivo.

“E come?” Fece Doctorovschi.

“Beh... Beh, si potrebbero mandare in Ucraina, in modo che gli ucraini li fanno arrivare in Russia, in modo che la pandemia colpisce là...” (Ancora nessuna caduta nel bieco congiuntivo.)

“Ma proprio non hai capito niente – disse lo scienziato scuotendo la testa. – Quei polli sono perfettamente sani. I russi saranno sì brutti e cattivi, ma non sono fessi. Quelli prendono i polli, ringraziano, e se li mangiano. Un po’ ce li dividiamo fra noi, li mettiamo in freezer, e il resto lo inceneriamo.”

La pandemia riciclata fu democraticamente messa ai voti e ne riscosse la totalità. Un tempo si sarebbe detto che si trattava di un plebiscito bulgaro. Oggi, però, la Bulgaria ha assunto una posizione non proprio chiara, e non si sa mai.

 

Palmiro non tornò a casa. Andò direttamente all’ospedale e domandò se fosse possibile tornare in coma.

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